Disciplina dolce: cosa si intende?

Educazione e sviluppo infantile

di Valeria Falovo, psicologa

 

Diventare genitori significa, quasi dal primo momento (ma già durante i nove mesi di attesa), dover prendere delle scelte quotidiane che vanno lentamente a delinearsi come uno “stile di accudimento/educazione”. Scegliere come crescere i nostri bambini, quali valori trasmettere loro, come educarli, come renderli sicuri e sereni è una delle sfide più entusiasmanti ma anche più complesse che si aprono davanti a noi nel momento in cui diventiamo “mamme e papà”. La nostra identità viene ribaltata: prima eravamo figli, adesso siamo genitori. Siccome la mente umana tende ad affrontare le situazioni nuove facendo riferimento a ciò che già conosce, viene spontaneo e naturale “fare i genitori” così come abbiamo visto fare, quindi seguendo e ascoltando ciò che abbiamo dentro e che abbiamo vissuto in prima persona.

“Non farò mai come faceva mia madre con me!” e poi, inspiegabilmente, ci ritroviamo proprio a dire e fare le cose che avevamo ripromesso di non replicare con i nostri figli (per approfondire, consiglio il testo “Errori da non ripetere”, di Daniel Siegel). Affrontare la genitorialità in maniera serena e consapevole può aiutare moltissimo la relazione genitori-figli e andare ad influire positivamente sull’emotività-sicurezza-personalità dei bambini. Un genitore presente, consapevole e accogliente, favorisce lo sviluppo di un’autostima e di una competenza emotiva molto solide, andando quindi a costruire le fondamenta per uno sviluppo armonico di suo figlio.

Una delle strade percorribili in questa splendida avventura di crescita è quello di seguire un approccio naturale, quello che viene definito oggi “Disciplina Dolce”, modalità di educazione in cui vengono accolti e assecondati i bisogni dei bambini, sin dal primo giorno. A livello teorico un’impostazione di questo tipo viene supportata in primis da una prospettiva evoluzionistica, che in altre parole ci invita a guardare al bambino come ad un cucciolo di mammifero. Questo si traduce dunque in: allattamento al seno, contatto pelle-a-pelle a partire dai primissimi minuti dopo la nascita (e proseguire con l’uso di fasce e marsupi – il baby-wearing, portare i bambini), sonno condiviso (co-sleeping), autosvezzamento e tante altre pratiche che condividono l’idea di “assecondare i bisogni naturali”.

Il bisogno di contatto e di vicinanza infatti è stato inserito fra i bisogni primari dei cuccioli, al pari di quelli della fame e della sete, anzi sembra essere persino più intenso di questi ultimi (a tal proposito, si vedano gli esperimenti dei coniugi Harlow, sulle scimmie Rhesus, una delle scoperte a cui si è riferito John Bowlby nell’elaborare la sua teoria dell’attaccamento).
Ma la Disciplina Dolce non si limita ad accogliere il neonato che viene ormai riconosciuto come piccolo essere pieno di bisogni; al contrario porta ad esplorare ed osservare i bisogni dei bambini anche nelle fasi successive, quando solitamente vengono definiti ormai grandi e quindi, implicitamente, investiti di capacità e competenze quasi adulte. Un esempio è il bambino di 18-24 mesi che non vuole dormire in camera da solo: questo rifiuto viene letto e affrontato in termini di disciplina dolce come espressione di un bisogno (di contatto e/o presenza), dunque la chiave proposta è tendenzialmente quella di assecondare tale richiesta finché necessario.

Assecondare i bisogni, soddisfarli e accoglierli può sembrare un atteggiamento di tipo lassista ossia c’è la paura di adottare una modalità educativa eccessivamente permissiva e quasi indulgente, ormai riconosciuta come una forma genitoriale inadeguata e potenzialmente nociva per i bambini.

La differenza fra Disciplina Dolce e Lassismo consiste proprio nella costante presenza, attenzione e reciprocità che il genitore offre al figlio, approcciandosi in maniera dolce. Adottare questo atteggiamento non significa assolutamente abdicare al proprio ruolo di guida (cosa che avviene nell’educazione di tipo lassista), ma anzi potenziarla e viverla costruendo una relazione autentica e reciproca, cornice di ciò che sta alla base di un attaccamento sicuro.

Nella pratica di tutti i giorni dobbiamo dunque compiere uno sforzo per superare tutte quelle concezioni culturali che ci abitano e che descrivono il bambino come un essere da “indirizzare”, tendenzialmente “prepotente e capriccioso” (viene abolito il concetto di capriccio), che deve capire “chi comanda”. Il bambino qui viene avvicinato e accolto in quanto persona, con suoi bisogni, desideri e naturali spinte evolutive che spesso ci mettono in difficoltà.

Prendiamo l’esempio di un bambino di 18 mesi che desidera salire in piedi sul tavolo: come possiamo leggere questo gesto? Sta sperimentando le sue competenze motorie e di esplorazione dello spazio (bisogno, spinta evolutiva all’esplorazione), ma non ha in sé la capacità di accorgersi e di valutare che quell’iniziativa può risultare pericolosa. Ecco che interviene il genitore. In maniera spontanea ci verrebbe da alzare la voce (perché deve sentirmi!), precipitarci di corsa, chiamarlo per nome, dire “attento, scendi subito! Fermo! NO!”.

 

Come muoversi?

In primis un bel respiro. E poi utilizzare tutto ciò che abbiamo di emotivo dentro di noi, comunicando e verbalizzando. Si lavora su due componenti fondamentali: le Emozioni, ovvero sentire quelle del bambino e anche le nostre; la Comunicazione (sia nei contenuti che nella forma), quindi accogliere le emozioni del bambino, verbalizzarle e fare lo stesso con le nostre, costruendo anche le frasi in senso positivo ed evitando le forme negative nel parlato (per esempio: “Non salire sul tavolo” diventa “per favore, rimani sulla sedia”).

Tradotto in parole significa:

1 – Rimanere calmi ma osservare, senza alzare la voce e senza chiamarlo (il richiamo spesso distrae il bambino, che è portato a voltarsi verso di noi, perdendo automaticamente la concentrazione e l’attenzione che stava utilizzando per compiere la sua arrampicata);
2 – avvicinarsi con calma (usare il contatto per metterlo in sicurezza), magari ponendosi accanto a lui e sorridendo;
3 – verbalizzare le sue emozioni: “Lo so che salire sul tavolo è molto divertente! Sei un bambino curioso e coraggioso!” (capisco cosa provi, capisco la tua curiosità e la reputo fisiologica, perché sei un bambino);
4 – verbalizzare le nostre emozioni: “purtroppo però questa cosa non posso lasciartela fare perché è pericoloso e ho paura tu ti faccia male (esiste un perché – è pericoloso; esiste la mia emozione – ho paura).

Qui entra in gioco il nostro sentire, i nostri limiti, i nostri bisogni. Possiamo pensare di farlo salire sul tavolo, aiutandolo, osservando, chiedendogli “come si sta lassù in alto?”. Questo è del tutto soggettivo, alcuni genitori lo concedono e aiutano il bambino ogni volta che prova a salire sul tavolo; altri gli offrono un’alternativa più sicura, quindi arrampicarsi su una struttura pensata per lui, ad esempio una learning tower; altri ancora invece lo reputano troppo e decidono che quello è un limite. Ciascun genitore, ciascuna famiglia deciderà quale atteggiamento e regola porre rispetto ad una situazione come questa ed alle altre che si presenteranno.

Uscendo dall’esempio, il discorso si riduce proprio a quanto indicato all’inizio: compiamo delle scelte, giornaliere, che ci portano in una direzione o in un’altra (in tantissime direzioni a dirla tutta, ogni coppia genitore-figlio è unica e irripetibile). Riuscire a comprendere e sviscerare queste scelte ci avvicina ad un atteggiamento autentico e consapevole: so spiegarti perché ti impedisco o ti chiedo qualcosa, non lo faccio in automatico perché “è così!”.

Ascoltare i bambini ma anche noi stessi ci porta ad esplorare i perché dei nostri comportamenti, le motivazioni sottostanti, le idee che ci abitano e diventarne consapevoli. Ogni tanto anche a metterle genuinamente in discussione. Spiegare le emozioni e i significati delle cose è un compito genitoriale primario, fornisce ai bambini una sicurezza emotiva impagabile, ma soprattutto ci consente di trasmettere ai bambini valori e conoscenze senza imporle perché “lo dico io, io sono tua madre/tuo padre e mi devi ascoltare”.

I bambini comprendono il significato delle regole, lo interiorizzano, imparano a utilizzare il loro senso critico per esplorare il mondo (in altre parole a chiedersi perché) e infine seguono le nostre indicazioni perché le trovano giuste e sensate e non perché hanno paura di una nostra punizione, disapprovazione, sgridata. Preferiamo che nostro figlio non salga sul tavolo perché ha paura di noi oppure perché apprende che effettivamente può essere pericoloso e quindi condivide il nostro punto di vista? Abbiamo voglia di fermarci a spiegare questo significato e aspettare che venga appreso, condiviso e capito dal nostro bambino?

Disciplina Dolce significa esattamente questo: desidero che tu cresca con amore. Desidero stare con te e con le tue scoperte e, di conseguenza, aiutarti a capire i limiti. Desidero che tu mi stimi come genitore, non voglio utilizzare la paura e l’intimidazione, voglio esserci in maniera sincera.

E per trasmettere questo desiderio possiamo solo e soltanto esprimerlo con la nostra presenza e il nostro atteggiamento, costruendo la relazione con i nostri bambini, partecipandovi in prima persona con tutto il nostro essere, trasmettendolo tramite i gesti, l’ascolto e le parole.

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