Tratto da “Colazione con Silvia”
con Silvia Iaccarino e Simona Vigoni
Cercheremo di fare dei ragionamenti tarati rispetto alla relazione educativa sulla parola ASPETTATIVA.
Mi piace parlare di questo aspetto nella relazione educativa, perché nella mia esperienza, mi sono resa conto negli anni di quanto le aspettative, che sono spesso implicite e inconsapevoli, siano in grado di condizionare la stessa relazione. Alcune insoddisfazioni che viviamo nei nostri rapporti personali o professionali, possono pescare in questa dimensione. Cioè in quelle aspettative che noi nutriamo nei confronti dell’altro, che sia nostro figlio, che sia il bambino di cui ci prendiamo cura, che sia un nostro collega, nostro compagno, compagna, l’amico, l’amica, genitore, fratello, sorella… noi nutriamo sempre, costantemente più o meno consapevolmente delle attese. Per cui ci aspettiamo che l’altro in qualche modo corrisponda a dei nostri ideali, a delle nostre richieste, che possa soddisfare dei nostri bisogni, che possa compensare delle nostre fragilità e delle nostre fatiche. E di conseguenza quando noi abbiamo questi impliciti che governano la relazione, soprattutto quando sono inconsapevoli, quindi impliciti, si possono creare diverse fatiche.
Pensiamo, per esempio, a quanto un genitore può restare deluso dal proprio figlio o figlia, dalla scuola primaria in su, quando si iniziano ad avere delle richieste di prestazione un po’ più solide verso i bambini e le bambine e allora il figlio porta a casa un voto, un giudizio, che sia non piacevole e quanto questo delude più o meno il genitore e quanto questa delusione del genitore poi entra in gioco all’interno della relazione. Quanto l’adulto è più o meno in grado di vedere che c’era un’attesa che è stata delusa e quanto è più o meno in grado, se riesce a vedere questa attesa, di elaborarla senza poi scaricarla sul bambino, per esempio punendolo o sgridandolo, facendolo sentire inadeguato per il fatto che lui o lei non ha adempiuto al suo dovere di studente in un certo modo.
Mi piace usare l’immagine dell’iceberg, perché credo che se ci interrogassimo rispetto alle nostre reazioni emotive, soprattutto quando proviamo delusione, frustrazione, fastidio, rabbia, ma anche paura e preoccupazione, se noi, tenendo questa immagine dell’iceberg, potessimo tuffarci sotto l’acqua e andare a guardare quella parte nascosta, troveremmo queste attese e diventare consapevoli di queste aspettative ci aiuterebbe enormemente a capire di più, sia noi stessi ma anche poi a comunicare con l’altro in modo diverso.
Ci sono invece delle aspettative, delle attese che sono evolutive, che rinforzano, rinsaldano, accompagnano in modo buono la relazione educativa. Altre rischiano di inficiarla. Per cui molto dipende da quanto siamo più o meno consapevoli innanzitutto di quelle che sono le nostre aspettative all’interno del rapporto e quanto siamo anche più o meno consapevoli rispetto a queste attese, di quanto sia “roba” nostra e quanto ragionevolmente sia qualcosa che possiamo richiedere al bambino. E qui anche tutto il discorso della zona di sviluppo prossimale ci viene in aiuto, perché a volte noi richiediamo, più o meno implicitamente, ai bambini delle prestazioni anche comportamentali, senza andare a cercare la prestazione scolastica. Rispetto ai comportamenti ci attendiamo a volte dai bambini delle azioni che di fatto non sono possibili rispetto alla loro età, tappa di sviluppo e personalità. E allora quando noi non siamo consapevoli rispetto a questo, di nuovo, la relazione rischia di incistarsi perché noi diamo per scontato che il bambino o la bambina dovrebbe essere capaci di fare quello che noi ci immaginiamo, ovviamente non accade perché quel bambino o bambina non può corrispondere a quella nostra aspettativa ideale e lì ecco che poi scatta la delusione o la preoccupazione.
La questione è proprio legata al valore che noi diamo alla persona rispetto all’azione che la persona fa e quanto il valore che noi sappiamo scindere tra la persona e il comportamento e quindi anche le aspettative verso la persona o verso l’azione poi possono condizionarci nel nostro rapporto con quel bambino o bambina o anche tra adulti, ovviamente. Quanto siamo anche in grado di separare la persona dal suo comportamento e di non fare un tutt’uno che poi rischia di inficiare la relazione proprio perché quella persona non ha corrisposto al nostro ideale.
Quindi è importante interrogarsi, tuffarsi sotto l’acqua e guardare l’iceberg anche nella sua parte nascosta. Se riusciamo a mettere all’interno della relazione questa disponibilità, possiamo conoscere meglio noi stessi, possiamo scoprire alcune parti di noi di cui magari non eravamo totalmente coscienti e possiamo andare a prenderci carico, a prenderci la responsabilità. Nel senso etimologico. Capacità di risposta nell’andare a occuparci noi di quelle parti che riscopriamo in qualche modo più “bambine” all’interno di noi stessi e che possiamo prendere in braccio, coccolare, accompagnare in una crescita anche interiore. E dall’altro lato, fare pulizia all’interno della relazione, perché, possono essere delle trappole. Magari potremmo dire al nostro compagno, compagna, collega ma anche con i nostri bambini: “Guarda mi sono arrabbiata, mi sono sentita delusa perché avevo questa attesa, avevo dietro questo pensiero, mi aspettavo questa determinata cosa che non è accaduta e il fatto che non sia accaduta mi ha generato questa emozione”.
Leggevo il commento di una collega: “le aspettative possono tramutarsi assolutamente in etichette e che possono ingabbiare”. Ingabbiare l’altra persona, chiudere delle strade, delle porte, delle possibilità. Se un bambino arriva fino ad un certo punto, “se il bambino sta qui e io gli chiedo qualcosa di molto alto, questo”, è indigeribile, è inaffrontabile. Non è evolutivo, non lo porta avanti. Posso chiedergli un gradino in più. Allora lì accompagnandolo, poi pian pianino posso fare un percorso in cui il bambino cresce, evolve, aumenta la sua capacità a tanti livelli, perché passetto, passetto ci accompagniamo insieme a lui altrimenti senza accorgerci, quello che facciamo è chiedere dei salti di livello troppo grandi che un bambino non può ottemperare. Un bambino piccolo non può dire: “no la mamma mi sta chiedendo qualcosa assolutamente fuori dalla mia portata, il problema è suo, io sono a posto”. No, un bambino si prende carico, quindi se si sente fare delle richieste non le può mettere in discussione, le prende per buone e ovviamente se poi lui non ce la fa a raggiungerle, il carico se lo prende lui. “Sono io che sono inadeguato, sono io che non vado bene, sono io che sono sbagliato” Qui torna tutto il tema dell’autostima deva e quanto le aspettative soprattutto se sono molto, molto alte e poco calate con la realtà del bambino o della bambina, possono essere più che evolutive, veramente un grandissimo blocco. Perché la giusta aspettativa, quella che sta all’interno della zona di sviluppo prossimale è evolutiva, accompagna alla crescita, l’altra invece diventa insostenibile, indigeribile, inaffrontabile con tutto quello che ne consegue.
L’ansia da prestazione l’abbiamo sperimentata qualche volta nella vita, ma spesso è collegata proprio a quanto noi ci sentiamo più o meno in pericolo nel senso proprio di deludere qualcuno o qualcosa, in primis anche noi stessi.
C’è invece l’aspettativa nel senso dell’esserci: questa è il tipo di aspettativa che nutre il rapporto perché ha uno slancio di apertura. Dove non chiedo all’altro di essere qualcosa di particolare, ma chiedo all’altro semplicemente di esserci, di essere presente nella relazione con me. Quindi non sto chiedendo una prestazione, sto chiedendo una presenza, che è molto diverso. E questo credo che sia una chiave trasformativa, una chiave di volta, fondamentale perché all’interno dei rapporti, se poi andiamo come dire a guardare sotto, quello che noi necessitiamo come umani e ne parlo anche nel corso sulla teoria polivagale, è la connessione, che per noi in qualità di esseri sociali è un imperativo biologico. Essere in connessione con l’altro. Quello che ci interessa principalmente è essere connessi da cuore a cuore e significa esserci per quello che siamo, in quel momento, con quello che possiamo portare, con quello che la nostra umanità di quell’istante è. Per noi che ci occupiamo di educazione credo sia importante alimentare la dimensione dell’essere, più che del fare e del possedere, dell’avere. E nel momento in cui noi alimentiamo la dimensione dell’essere, del cuore, della presenza, allora possiamo nutrire le nostre relazioni in maniera autentica perché ciascuno porta quello che è, quello che può, nel modo in cui può e fino a dove può e noi siamo disponibili ad accogliere questo. E allora questo genera sicurezza, perché genera questa possibilità di esserci con l’altro per quello che possiamo con molta apertura, nutrendoci l’uno dell’altro in quello che ciascuno può donare all’interno della relazione. In maniera veramente autentica, con tutta la vulnerabilità, la fragilità e la nostra dimensione dell’errore, dell’inciampo, del limite, del difetto e quant’altro. Proprio perché a quel punto io ti aspetto, aspetto te per quello che sei, indipendentemente dal risultato e dal prodotto di cui sei portatore, perché non è questo che interessa. E’ un po’ come traslare tutto il nostro tema del prodotto versus processo, di cui spesso parliamo in PF06 nella nostra formazione, sul piano della relazione: le nostre riflessioni così come le facciamo, sul piano dell’offerta formativa che noi diamo ai nostri bambini e bambine nei servizi, la potremmo altrettanto ragionare sul piano della relazione. Quindi portando attenzione al processo e non al prodotto, all’essere e non all’avere, al produrre, al fare, nel senso proprio di corrispondere a qualcosa che ci viene calato dall’alto e in cui magari potremmo non riconoscerci. Credo che anche la libertà, all’interno di un rapporto abiti soprattutto in questo; nella qualità della presenza che possiamo scambiare, offrire gli uni agli altri, in questo esserci per quello che possiamo. Penso che il senso di quel brano del Piccolo Principe, sia questo. Fondamentalmente la volpe non chiede al Piccolo Principe di essere in un modo piuttosto che in un altro. Gli chiede di esserci ed è questo che davvero conta. Essere connessi e stare insieme.