Riflessioni fragili

Educazione e sviluppo infantile

 

di Laura Fazio, pedagogista, docente di Percorsi formativi 06

 

In questi mesi che ho etichettato come “tempo sospeso” mi sono ritrovata spesso a guardarmi dentro spaesata, smarrita, preoccupata e spesso arrabbiata. Schiacciata dal peso di pensieri altrui, da impossibilità di azione, di movimento, oberata dalle fatiche emotive e dal senso di responsabilità.

Chi si prende cura di chi cura? Chi si prende cura di chi ha sulle spalle tanti pesi emotivi? Pesi che spesso mi hanno spinto verso il basso, verso una trama che quasi diventa impercettibile e offuscata, come quando perdi le diotrie e non riesci più a mettere a fuoco quello che vedevi bene da vicino.

Chi si prende cura di chi cura? Come prendersi cura? “Bisogna prendersi cura di sè stessi per poter offrire cura agli altri”. Queste parole mi sono state scolpite nel cuore quando le ho sentite pronunciare per la prima volta dall’ostetrica che mi ha accompagnata nel cammino della prima gravidanza. “Devi prenderti cura di te per poterti prendere cura degli altri”
Spesso mi sono trovata ad ascoltare, a dare conforto, ad instillare fiducia quando la sfiducia era generale. Poi però le risorse finiscono. Ho cercato la cura nelle parole, nella poesia, nella musica. Non potevo lasciare che i colori dentro di me si spegnessero per la paura e l’incertezza.

Essere fragili quando fragile sei già, al punto che non hai ancora avuto modo di lenire le tue di ferite, non hai ancora finito di mettere le prime colate di oro nel tentativo di ripristinare i cocci che poco tempo prima erano caduti in mille pezzi.

La fragilità della non – risposta, del sapere di non sapere, di non avere scenari confortanti.

Stare nella propria fragilità offusca la mente e il cuore. “Scava dentro di te, dentro di te c’è la fonte di ogni bene e continuerà a zampillare in eterno, se continuerai a scavare” diceva Marco Aurelio. Io che mi sono messa in ricerca dell’effetto dello sguardo dall’alto e nel suo opposto come atteggiamento pedagogico per eccellenza, mi sono ritrovata ferma a guardare con occhi offuscati.

Dove posso trovare conforto se sento la mancanza dell’essere confortati? L’andrà tutto bene forse non basta più per generare quella spinta necessaria a rialzare lo sguardo. Occorre altro.

Quando crollano le tue certezze e capisci che tutti gli scenari possibili di ripresa sono tanti e poco concreti, lontani anni luce dalla reale esperienza di presenza relazionale che è fatta di intensità, di tocco, di gesti, di sorrisi, di intrecci di storie, di lacrime e non solo, traballi. Traballi a tal punto da pensare che occorra qualcuno che o ci offre uno scossone e sparaglia le carte o forse quello scossone lo devi dare a te stessa.

Scavo dentro di me, cerco nei cocci e ritrovo da dove sono partita: scopro la piccola grande luce che non si è mai spenta. Il desiderio di conoscere. So di non sapere. Lo diceva Socrate. Sapere di non sapere genera desiderio di conoscenza. Allora attingi alla fonte del sapere, rialzi lo sguardo e ti sembra che le parole possano dare conferme alle tue certezze, non perché si è sempre fatto così, ma perché le intuizioni costruite e ricercate in questi anni trovassero forma e fossero rispolverate per ritrovarne una possibile riformulazione.

Cosa cura chi si prende cura? La narrazione, le parole, la conoscenza e la formazione. Non perché ci sia già una strada sull’innovazione culturale e pedagogica che stiamo attraversando, ma perché in tanti stiamo capendo che l’errore si può vivere, si può conoscere, non è sbagliato. L’imperfezione e l’incertezza nella pedagogia generano nuove possibilità e non avere tutte le risposte stimola nuovi apprendimenti e apre, oltre la mente il cuore.

“Maneggiare con cura”. Forse dovremmo ricordarcelo più spesso. Maneggiare con cura l’altro, gli altri, i bambini in primo luogo e chi si prende cura ha bisogno di essere “maneggiato” con cura. Siamo troppo spesso pronti all’andare all’attacco dell’altro, piuttosto che all’incontro con l’altro. Oggi più che mai dovremmo maneggiare con cura ogni aspetto pedagogico, riprenderlo in mano e curarlo in tutta la sua delicatezza, al di là di tutte le impalcature ideologiche, burocratiche e sanitarie che probabilmente lo decoreranno con steccati rigidi.

Nel frattempo dentro questo tempo sospeso ancora per un po’, alziamo lo sguardo e incrociamo quello degli altri, non nascondiamo il sorriso che può trapelare anche sopra la mascherina, sveliamo la nostra essenza fragile comune a tutti, i nostri occhi –lo specchio della nostra anima- diamo forma ai timori e prendiamocene cura instillando l’ossitocina naturale che genera il contatto pelle a pelle, in attesa di quando avverrà concretamente abbassando ogni difesa. Restiamo autentici, restiamo fragili.

 

 

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