con Silvia Iaccarino e Simona Vigoni, tratto da COLAZIONE CON SILVIA – Dialoghi intorno alle parole che aiutano a crescere
Simona: Come spesso capita, il caso non capita “a caso”. Pochi giorni fa, stavo sistemando alcune ”sudate” carte e sono incappata in questo brano dal quale vorrei cominciare oggi, a pochi giorni di distanza dalla giornata della memoria. Gli appunti risalgono al 2011: questo brano fu l’inizio di un mio intervento sulle cure a Tizzano, in occasione di un Convegno aperto alla cittadinanza.
“In uno scantinato di Drancy, dopo che ero stata violentemente percossa dalle SS, la porta si aprì nel buio, lasciando entrare qualcuno. Non ricordo che il volto, l’enorme gratitudine e il conforto che provai. Mi sembra di vedere ancora la bacinella e di sentire la spugna che mi veniva passata sul viso, l’impressione di riprendere le forze, di essere totalmente riconfortata.(…). Per quanto riguarda l’assenza di cure credo che, a livello dell’umanità intera, non sia stato detto che nei campi di concentramento l’elemento determinante per la distruzione dell’individuo fu proprio l’assoluta ‘non-cura’. La non -cura è l’assenza di cibo, oppure il cibo disgustoso, la sporcizia repellente, i vestiti sudici, lo sfinimento, l’assenza di sonno. E non è neppure stato detto che, quando questo succede al corpo, l’anima fugge via. In ogni caso la psiche scompare e non si pensa più. Un corpo maltrattato non può pensare.”
Questa è la testimonianza di Myriam David, pediatra, psichiatra e psicanalista che soffrì la persecuzione e la deportazione nazista e che si espresse in questo modo nel ricordare con stima e riconoscenza il lavoro svolto dal personale educativo dell’Istituto di Loczy a Budapest, sotto la direzione di Emmi Pikler che fece dei gesti di cura quotidiana, il fulcro della relazione tra adulti e bambini, nel lontano 1946. L’idea era di cominciare da qui. La nostra parola di oggi è ROUTINE; sappiamo che questo termine è un concetto che nell’immaginario è molto svalorizzato. Si dice “il mio matrimonio è entrato in crisi perché era la solita routine”, “il lavoro è la solita routine” : forse per scongiurare il rischio che i momenti di cura non diventassero all’interno dei servizi educativi qualcosa di meccanicamente eseguito, neutralmente meccanico e di ripetitivamente uguale, abbiamo scelto di sostituirlo col termine cura. La prima domanda che faccio a Silvia è: perché la routine, perché la quotidianità è così importante, perché abbiamo scelto “routine” da inserire nel nostro speciale vocabolario tra le parole che aiutano a crescere?
Silvia: grazie per questa lettura molto toccante, emozionante, a ridosso del giorno della memoria. E’ un brano universale perché quello che la David esprime in questo pezzo è applicabile a qualsiasi situazione di non cura, qualsiasi sia l’origine di quella situazione, ed è qualcosa di veramente molto forte, perché come dice Luigina Mortari, prendersi cura del corpo vuol dire prendersi anche, contemporaneamente, cura dell’anima, perché l’anima è diffusa nel nostro corpo e quando noi tocchiamo il corpo di una persona, adulto o bambino che sia, tocchiamo anche l’anima di quella persona. Questo brano che hai letto poco fa, quando la David dice “se non c’è cura del corpo, l’anima scappa via” credo che sia veramente molto profondo e nella sua drammaticità ci ricorda quanto è importante questa cura, innanzitutto del corpo e che, come dicevi anche tu prima, a volte rischia di non essere sufficientemente messo a consapevolezza. In questo caso, si rischia quella meccanicità, quella sterilità, quel vuoto dei gesti e dell’essere nella relazione che poi di fatto ci porta ad essere esecutori e non educatori. E’ una parola importante “routine”, meglio ancora, “momenti di cura”, per dare più rilievo a questo elemento, perché davvero quando ci prendiamo cura dell’altro, e il nostro è un lavoro elettivo in questa direzione, abbiamo la necessità di avere sempre ben in mente quanto la cura richieda l’esserci. L’essere lì presenti nella relazione con l’altro, per noi che questi gesti li compiamo sul corpo del bambino, soprattutto nella fascia 0-3 quando la cura del corpo ha un aspetto preminente, diventa fondamentale. Diventa fondamentale essere lì, presenti, testa, cuore e pancia, insieme al bambino o alla bambina perché altrimenti il rischio della non cura ce l’abbiamo anche in contesti non così estremi come quello che ci hai descritto: non c’è bisogno di essere in un luogo così non umano per essere poco curanti. Noi possiamo essere in-curanti anche in luoghi assolutamente quotidiani come le nostre case, i nostri servizi, nel momento in cui non abitiamo il nostro essere nella relazione con l’altro con la pienezza di noi stessi e con il nostro esserci con la nostra stessa anima, perché la cura e il lavoro educativo sono gesti profondamente spirituali, perché richiedono questa forte connessione da umano a umano che è in grado, nel caso della cura dei bambini più piccoli, di mettere insieme i pezzi del loro sè e di aiutarli a integrare quel sé corporeo che poi è la base su cui si costruisce tutto l’edificio della personalità e non dobbiamo mai dimenticare che noi siamo prima di tutto un corpo, un corpo animato ma animato nel senso alto del termine, proprio perché dotato di anima. E nel momento in cui curiamo il corpo, curiamo l’anima e quando c’è la cura del corpo, quella vera, di cuore, c’è anche cura dell’anima che è quella che permette al bambino di venire al mondo una seconda volta in un certo senso. Perché non c’è solo il dare alla luce fisico – il bambino che viene al mondo – ma c’è un venire al mondo che è anche un diventare persona, che è dispiegare il proprio sé, che è fiorire, è sbocciare e che è qualcosa che può accadere quando c’è un adulto in grado di nutrire quella parte profonda e nello stesso tempo superficiale, visto che passa attraverso la pelle. Quando sappiamo fare questo, possiamo permettere ai bambini e alle bambine di diventare degli umani in tutti i sensi, con la U maiuscola. E in questo davvero la David, in questo brano, lo fa trasparire in modo molto forte. Noi non possiamo diventare umani se non attraverso la relazione, nutriente, calda, accogliente dove possiamo sentire che siamo accolti per quello che siamo e che non c’è nessun bisogno di fare altro, di essere altro, perché quello che siamo va bene così. E questa accoglienza senza giudizio, senza etichette, è quella che ci permette proprio di essere in contatto anche con noi stessi, con la nostra profondità, e di poterci esprimere al meglio di noi man mano che – lungo il corso della nostra vita – cresciamo e via via possiamo dare anche spazio, sempre più e sempre meglio a ciò che siamo, manifestare quella nota, quel colore che siamo venuti a portare nel mondo, nella nostra unicità, perchè non c’è nessun altro al mondo come noi e questo credo che sia qualcosa di veramente importante che ci accompagna anche nel trasmettere ai bambini e alle bambine l’importanza di essere sè stessi, non omologati a nessun altro. Questo non vuol dire permettere di fare qualsiasi cosa senza limiti e freni; non è certo questo, perché sappiamo bene quanto sia importante la regolazione, e questo è l’altro tema grande all’interno del discorso “routine”. Infatti, la routine è anche – all’interno della nostra quotidianità – andare a modulare dei ritmi, perché la vita è ritmo, perché noi pulsiamo in ogni nostra cellula e necessitiamo di trovare quella ritmicità anche nel mondo che ci circonda, che è quella che orienta anche il bambino, soprattutto quando è molto piccolo, a muoversi all’interno della sua giornata, della sua vita. Senza routine, senza ritmo non è possibile rintracciare quegli elementi che si ripetono costanti, continui che danno sicurezza, serenità. Come umani abbiamo necessità anche del noto, per spingerci verso l’ignoto: abbiamo questa tensione alla scoperta, all’esplorazione, a superare noi stessi, ma abbiamo anche necessità di cose note, di prevedibilità, stabilità. Abbiamo una continua tensione fra questi elementi; la rottura della regolarità, ma allo stesso tempo la necessità, la ricerca della regolarità. Tutta la vita è una tensione tra queste rotture e riparazioni delle rotture, nel senso di ricerca del nuovo e della stabilità. E per i bambini è un elemento di grande importanza avere questa possibilità di rintracciare nelle loro giornate elementi noti, che diano sicurezza e che consentano di dispiegarsi di nuovo nel loro essere: è quando ci sentiamo al sicuro che possiamo esprimere noi stessi al meglio e al massimo. Quindi la sicurezza ci viene anche dalla regolarità della vita da un lato e dall’altro dal sentirci all’interno di abbracci fisici e metaforici nelle relazioni per noi importanti. Quando ci sentiamo abbracciati, accolti, ben accetti e ben voluti per quello che siamo, ciò genera in noi una profonda sicurezza che ci consente di crescere al meglio. Questi due elementi, della ritmicità della vita e della regolazione, dei ritmi da un lato, e dall’altro della cura intesa proprio come cura a tutto tondo, credo che siano elementi di grande importanza.
Simona: Hai espresso tantissimi concetti, sei stata un bel fiume in piena, hai rotto gli argini. Mi venivano in mente alcune citazioni. Una è quella di Sartre, quando hai parlato del tocco: “la carezza non è un semplice sfiorare, è formare”. E poi mi è venuto in mente Bruno Bettelheim: “il Sé del neonato è tutto nel suo corpo e che lo percepisca come fonte di godimento o di disgusto, dipende dall’atteggiamento che abbiamo verso quel corpo.” I momenti di cura sono momenti in cui la nostra professionalità viene incarnata nelle nostre mani che diventano testimonianza della nostra capacità di saperci fare col bambino, che è tanto più sereno quanto meglio viene accudito, nutrito o curato a conferma che il nostro corpo è articolazione della psiche. Il sé corporeo costituisce la base sulla quale vengono costruiti tutti gli aspetti più complessi della personalità, quindi questo pezzo è la base sulla quale poi si costruiranno le altezze. E poi, in questo momento in cui avremmo tutti forse un po’ bisogno di ritornare alle nostre placide stanzialità, ricordarci il sapore e il sapere delle abitudini, la valenza delle ritualità. Il sapore dell’abitudine qualche volta è un buon sapore, no?
Silvia: assolutamente sì, abbiamo questa necessità grande e forte proprio di stabilità; è l’abitudine quella che ci garantisce quelle basi di appoggio su cui poi noi possiamo anche slanciarci verso l’alto perché siamo un po’ come gli alberi: necessitiamo di radici perché poi servono a spingerci verso l’alto. E’ anche un superamento, in qualche modo, di noi stessi: ogni generazione che nasce, supera le precedenti. E’ un evoluzione costante e continua quella a cui tendiamo. Poi certamente a volte sembra più involuzione che altro, a guardare certi momenti della nostra storia precedente e attuale, però non c’è dubbio che, trasversalmente, stiamo andando avanti, nonostante inciampi, brevi tratti o, non brevi, a volte, di regressione ma lo sviluppo umano del resto non è una linea retta in costante crescita: se la zoomiamo molto da vicino possiamo vedere che, anche gli studi ce lo evidenziano, un po’ come il gambero – un passo avanti e due indietro – due avanti e uno indietro – e si procede così, per slanci in avanti e ritorni all’indietro, un po’ come un elastico. Lo facciamo noi adulti, lo fanno i bambini, le famose regressioni di cui tanto spesso si parla e ancora di più se ne è parlato durante il lockdown e adesso. Genitori, educatori, educatrici, insegnanti osservano queste dimensioni anche nell’espressione della quotidianità dei bambini. Dovremmo fare una riflessione su quanto la regressione faccia parte della vita e non significhi che stiamo perdendo dei pezzi, ma solo che necessitiamo di recuperare delle energie ed è chiaro che se abbiamo bisogno di recuperare energia, è più facile farlo tornando un po’ indietro su alcuni passaggi, per ristabilire, ristabilizzare alcune prassi, alcuni apprendimenti, alcune condizioni dell’essere che ci donano poi questa possibilità di rifornirci, per ripartire nuovamente in avanti. Credo che avere in mente questa dimensione non lineare del percorso di crescita possa essere importante, tanto per i genitori, quanto per i professionisti, anche per accogliere nuovamente i bambini quando manifestano queste piccole o grandi regressioni senza spaventarci, senza giudicare, senza spingere perchè trasmetteremmo al bambino l’idea che quello che lui è, o quello che fa, non è adeguato e quindi gli daremmo un’immagine di sé, che non va bene, così come è. La dimensione che ci offre la possibilità di esistere come umani con la U maiuscola, è anche proprio quella per cui noi, sentendoci accolti e benvoluti e generando ciò un senso di sicurezza importante, proprio grazie a questo, andiamo avanti ed esprimiamo noi stessi al meglio. Noi abbiamo una responsabilità. Come professionisti chiaramente nel nostro ambito, ma anche come genitori; diciamo che, in qualità di adulti, abbiamo la responsabilità di avere in mente che, poiché noi siamo i grandi della situazione, per quanto a volte anche in difficoltà, è nostro compito presidiare la cura, per non dimenticarci di quanto è importante avere questa gentilezza, empatia, calore, questa morbidezza e delicatezza nel rapporto con i bambini. Il modo in cui accarezziamo, come dicevi prima citando Sartre – la carezza è fondatrice, è fondante – non è soltanto un gesto gentile, ma una gentilezza che nutre l’anima, nutre profondamente l’umano e senza la quale, senza la gentilezza non possiamo davvero diventare il meglio di noi stessi. Lo diceva la David nel brano che hai letto. Ma tanti, tanti studi oggi lo dimostrano, ma, già dalla notte dei tempi, le pratiche sapienziali ci hanno trasmesso questa idea di educazione come nutrimento dell’essere, come possibilità di fondare l’essere, le virtù che ci connotano come umani e che ci appartengono per diritto di nascita. Noi nasciamo dotati, per nostra stessa natura, di un pacchetto di capacità, competenze che se trovano il giusto ambiente, possono esprimersi. Ma se trovano invece un ambiente non nutriente, un ambiente ostile, è molto più difficile poter fiorire. Poi. È vero, la resilienza ci dà conto di come i fiori possono nascere anche nell’asfalto. Ma come professionisti, abbiamo la responsabilità di creare le migliori condizioni possibili, per far crescere i bambini in maniera armonica, e questo vuol dire avere cura degli ambienti che abitiamo, che siano la nostra casa, che siano i nostri servizi, vuol dire avere cura della nostra regia educativa, vuol dire avere cura di noi stessi. Quest’ultimo, a mio avviso, è un elemento che troppo spesso dimentichiamo, ovvero quanto per curare l’altro sia fondamentale partire dalla cura verso di noi. Perché se io adulto per primo non sto bene, non sono in contatto con me stesso, contatto che mi consente di essere in auto-dialogo, in un’apertura del cuore, diventa difficile poi avere il cuore aperto e accogliere quello che c’è senza giudizio, sia rispetto a noi stessi e sia rispetto all’altro. Perché curo l’altro, ma, se per primo, non ho rispetto e cura verso di me, rischia di essere poi una pratica, un po’ appiccicata sopra. Come una maschera che mi metto ma che poi non è radicata in un essere reale che io porto nel mondo. Quindi noi educatori abbiamo questa responsabilità grande di attivare anche una cura nei confronti di noi stessi. Quell’accoglienza senza giudizio la possiamo davvero manifestare quando, anche verso noi stessi, riusciamo ad essere accoglienti e ad abbracciarci anche nella nostra vulnerabilità, nelle nostre imperfezioni, nella nostra fragilità. Queste vulnerabilità, fragilità sono quelle che ci rendono davvero umani, che ci portano ad incontrare l’altro da cuore a cuore e non da maschera a maschera, perché poi il rischio è di chiedere anche all’altro di non essere sè stesso e di lasciare da parte tutte quelle parti più fragili, più vulnerabili. Quando invece noi sappiamo prenderci cura della nostra fatica, delle nostre vulnerabilità, e fragilità, allora lo possiamo fare anche con l’altro e in particolare con i bambini. Quante volte nella mia esperienza di lavoro anche con i genitori, vedo la fatica di accogliere il bambino che magari in quel momento si comporta in “modo scorretto”, perché poi questo riporta anche ad una fatica ad accogliere sè stessi e di quanto anche il fatto che il bambino si comporti bene in qualche modo ci conforta nel nostro essere dei buoni educatori. E allora se il bambino non sta facendo quello che noi vorremmo, ci mette anche a contatto con delle nostre paure su noi stessi. Prenderci cura di noi diventa veramente una strada maestra per poterci prendere cura profondamente dell’umanità dei bambini. Della nostra e di quella dei bambini. Credo che siano riflessioni da fare costantemente perché poi a volte nella quotidianità, e quella è l’accezione negativa della routine, si rischia di non tenere a mente queste dimensioni. Ci perdiamo nel fare, fare, fare e ci dimentichiamo di essere e di abitare il nostro fare con un’autenticità, una profondità che diventa testimonianza.