tratto da COLAZIONE CON SILVIA – Dialoghi intorno alle parole che aiutano a crescere
Simona: La cura fa parte di uno dei miei primi argomenti di studio, quindi di tanti anni fa, per cui mi ritornano alla memoria citazioni di libri. Ti ricordi Leboyer? Nel suo breve e intenso “Per una nascita senza violenza” scrisse che per farsi capire dai bambini, dai neonati, occorreva parlare il linguaggio degli amanti. E cosa si dicono gli amanti? Gli amanti non si parlano, gli amanti si toccano, sono timidi, sono pudichi; per toccarsi, accarezzarsi spengono le luci, chiudono gli occhi per non essere altro che tatto. Perchè sono le loro mani a parlarsi. Ecco quello che capisce il neonato, ecco quello che occorre al neonato. Il tatto è l’unico senso ad essere reversibile: non puoi toccare senza essere toccato. E le carezze, balsamo per le nostre cure, tracciano memorie nel nostro corpo.
Silvia: certamente. E’ proprio la memoria corporea che noi accumuliamo, già a partire dal vissuto uterino. Da quando iniziamo ad esistere, accumuliamo memoria innanzitutto a livello sensoriale perché chiaramente questi sono i primi fondamentali canali attraverso cui abitiamo il mondo. Non possiamo esserci se non attraverso il corpo e i nostri sensi che ci fanno da guida e ci accompagnano nel leggere la realtà, nel sentire come stiamo, perché più del cogito ergo sum, dovremmo spostare la nostra attenzione sul sento e dunque sono e su quanto il sentire è a tutto tondo. Perché poi crescere, si cresce tutti. Come dire, volenti o nolenti, abbiamo un programma biologico che gioco-forza ci fa diventar grandi, ma quanto poi l’età anagrafica si accompagna con una reale maturità? Perché poi è anche questo il tema. La cura in questo senso è quella grazie alla quale possiamo diventare maturi, nel senso di sviluppare quelle capacità, competenze, abilità che permettono uno sviluppo armonico della personalità, senza la quale invece rischiamo di avere delle aree più in ombra, posto che la perfezione ovviamente non è di questo mondo. Quindi essere maltrattati non è qualcosa che fa male solo al corpo ma fa male soprattutto – tanto di più – all’anima. A quell’anima che come dicevamo all’inizio, dalla tua lettura – scappa via. Ma se scappa via che cosa resta? Resta un contenitore vuoto. Un contenitore che si muove in modo meccanico, esecutivo. Ma noi abbiamo bisogno di abitare noi stessi per poter portare quella nota, quel colore che dicevo prima, che solo noi possiamo portare e nessun altro perché ciascuno di noi ha quella sua particolarità che nessun altro potrà mai sostituire. E quindi credo che sia anche una nostra responsabilità tenere a mente che quando ci occupiamo dei bambini, soprattutto nella fascia prescolare, abbiamo una responsabilità proprio nel costruire dei percorsi di crescita che permettano loro di fondare se stessi su solide basi. A partire dal quel sé corporeo di cui dicevamo e che è proprio la pietra angolare su cui si fonda tutto l’edificio. Se il sé corporeo è debole perché le pratiche di cura non sono state nutrienti, ma semplicemente mi occupo di cambiare, dar da mangiare, lavare ma senza abitare questi gesti di cuore e di anima, quello che il bambino riceve è un non nutrimento, è qualcosa che non lo nutre, ma non solo, rischia anche di danneggiare perché in qualche modo trasmette al bambino l’immagine che “tu non vali, non sei importante per me”. Come dire, il bambino viene oggettivato. Poi la persona come fa ad emergere, come fa ad emergere la soggettività nel momento in cui io sono un oggetto nelle mani di qualcuno? E noi questa responsabilità dobbiamo sempre averla a mente proprio per non cadere nella routine e in quel meccanicismo che talvolta può accadere, soprattutto nell’ambito del lavoro educativo, magari per la fatica di sostenere ritmi e organizzazioni che non aiutano. Credo che si possa comunque sempre far qualcosa e che sia nostro dovere rintracciare un modus che ci permetta di animare, ripeto nel senso alto, il nostro fare e di non renderlo una mera esecuzione di gesti meccanici. Perché per quanto ci possano togliere intorno, per quanto possano anche non fornirci le condizioni ottimali per lavorare, nessuno può togliere a noi stessi il potere di mettere l’anima in quello che facciamo. Questa è veramente una responsabilità che un adulto che lavora nell’ambito educativo, a mio avviso ha: quando facciamo un lavoro così delicato come il nostro in cui le mani, come dicevi tu, “maneggiamo la vita”, e la costruzione del sé degli individui, dobbiamo avere questo senso di responsabilità sempre davanti agli occhi. Non si tratta di essere perfetti. Faremo il meglio che possiamo volta per volta. Con autenticità e al meglio che in quelle condizioni possiamo fare. Però il calore, il cuore, il nutrimento, sta a noi. Quello è in mano nostra anche perché sappiamo bene che ci sono, di contro, situazioni apparentemente ottimali di lavoro dove comunque non vengono dispiegate certe modalità e quindi è veramente in capo all’educatore, all’educatrice, al genitore, all’insegnante, poter avere una presenza con sè stessi tale, un contatto con sè stessi tale, da poter esprimere la propria umanità all’interno della relazione con i bambini e le bambine. Il bambino sente quando noi siamo presenti, quando ci siamo e quando non ci siamo, per davvero. Al di là del corpo. E lo sappiamo bene. Quante volte i bambini ci dicono “maestra guardami, mamma guardami”. Ci chiedono questo sguardo nutriente, questa presenza reale. Quante volte ci prendono la faccia e ce la girano perché vogliono che siamo attenti e presenti con loro al 100%. E questo è veramente importante. Del resto Dolci ci diceva “ciascuno cresce solo se è sognato”. E’ qualcosa che secondo me dobbiamo proprio avere come manifesto davanti a noi e tenere a mente, a prescindere da quelle che sono le condizioni oggettive che ci circondano.
Simona: sì, quindi oggi decretiamo la bellezza del quotidiano. Erickson definiva l’identità “sameness” che significa identicità, monotonia, somiglianza assoluta. Allora ritorno a quella ritualità, quella gradualità, quella continuità di cui hai parlato prima. Torno al valore delle abitudini. A me aveva aiutato, tanti anni fa, il bellissimo testo di Francesca Emiliani, La realtà delle piccole cose. Definiva le routine come impalcature di stabilità. L’abitudine davvero regola ai nostri stati emotivi, è un buon regolatore.
Silvia: assolutamente sì e come dicevo prima questo è l’altro grande filone del tema della routine intesa come regolarità, regolazione e la regolazione dei ritmi a tutti i livelli. E’ uno dei compiti principali, tanto dei genitori quanto dei professionisti, soprattutto nello 0-6 perché siamo all’inizio della vita, essere un po’ come gli equalizzatori degli stereo. La vita diventa affrontabile nella sua, a volte, intensità anche spiacevole perché il dolore, la paura, la tristezza, la delusione, l’angoscia, sono emozioni che fanno parte del nostro esistere. Non si può concepire una vita senza queste dimensioni più impegnative. Posto che non è possibile per noi risparmiare ai bambini e alle bambine l’esperienza anche dolorosa della vita, quello che possiamo dare loro è la rassicurazione del fatto che non sono da soli, che c’è qualcuno al fianco, che questo tunnel lo si attraversa insieme e che non sono abbandonati a sè stessi, non sono persi in un universo sconosciuto che non comprendono e che li spaventa. Perché in tutto l’arco dell’esistenza, e questo vale anche per noi adulti, quello che ci fa più paura in assoluto è quella solitudine dell’essere dove noi sentiamo che al fianco non abbiamo qualcuno a cui poterci, anche a volte, aggrappare. Quando si attraversano dolori grandi, momenti difficili, sapere di avere una spalla su cui piangere, qualcuno da abbracciare, anche solo virtualmente, è qualcosa che davvero ci tiene in piedi e ci consente di fare un passaggio, di fare un attraversamento. Se questa condizione non esiste, diventa veramente inaffrontabile e ciò vuol dire poi anche una dis-regolazione. Significa che poi, a quel punto, se noi non abbiamo chi ci aiuta in maniera organizzata, nel senso alto e potente del termine, ad attraversare i nostri vissuti, le nostre emozioni, i nostri sentimenti, possiamo sentire di andare in pezzi, sentiamo di frammentarci. E sentirsi frammentare, sentire di andare in pezzi è qualcosa di molto angosciante. E’ qualcosa che ci sembra che ci distrugga, che ci annichilisca, che non ci consente poi di aprire il cuore e di vivere al massimo della nostra possibilità. Essere al fianco dei bambini, aiutarli a regolarsi nelle diverse situazioni che attraversano, è quello che poi davvero va a creare quelle condizioni per cui potranno crescere con quelle impalcature di stabilità di cui hai parlato. Questa operazione di stabilizzazione, di contenimento e di sostegno, noi ai bambini dobbiamo portarla. Perché siamo noi gli adulti della situazione, noi siamo quelli che devono essere più grandi, più forti, più saggi e gentili. Sempre con questa gentilezza, con questa amorevolezza che fa passare al bambino di essere importante per noi e di contare ai nostri occhi. Quindi sta a noi, anche nella nostra fatica, non in modo perfetto, di esserci al loro fianco perché essere con qualcuno, essere per mano con qualcuno, ci conforta, al di là della maggiore o minore competenza. Un bambino non ci chiede il curriculum, quante lauree abbiamo, quanti master abbiamo. Ci chiede di essere presenti. Secondo me questa qualità della presenza dell’essere è qualcosa che dovremmo davvero coltivare perché sono convinta che nel momento in cui coltiviamo questa presenza e questo abitare la relazione con consistenza, questo già di per sé sia educare, perché permette all’altro di sentire di essere in un luogo dove tutto è possibile, perché non si è da soli, perché c’è calore, amore, cuore. Allora un cuore aperto consente, per osmosi, che anche un altro cuore possa allargarsi, aprirsi e dare spazio a quello di cui si è portatori. Quindi io credo che questa possibilità di educare con quello che noi siamo, sia davvero la risorsa più grande in assoluto che possiamo mettere in campo nel nostro lavoro. Coltivare noi stessi, il nostro essere, nutrirci, nutrire il nostro essere perché nella relazione coi bambini e le bambine è uno strumento che permette loro di costruirsi a loro volta. Seguendo ovviamente quello che è il loro progetto, la loro interiorità e la loro nota.
Simona: ci avviamo alla conclusione. Una collega che ci sta seguendo riporta che dobbiamo rispettare i bambini che non desiderano essere toccati. Concordo: la nostra affettività entra in campo meditata, pensata, problematizzata. Quindi torna centrale il tema della consapevolezza, dello sguardo, dell’osservazione, dell’essere connessi all’altro. Il discorso dello stare lì e dell’essere consapevoli.
Silvia: Concordo anch’io. Quando la presenza è veramente piena e consistente, arriva. E secondo me ciò è possibile anche senza passare dal contatto fisico. Perché se il bambino sente che ci siamo, che siamo ben piantati a terra e che siamo lì con lui interamente, gli arriva anche se non lo tocchiamo, sente quel campo che noi creiamo. Qualche giorno fa ho condiviso una citazione di Alessandro Bergonzoni, che è stata a sua volte condivisa molte volte: lui parla di fare voto di vastità e di creare una frequenza perchè questa frequenza che noi creiamo, genera delle possibilità. Ecco in questo io credo profondamente e sogno un giorno in cui saremo capaci di educare davvero profondamente con quello che siamo e con quel campo che sappiamo creare intorno a noi e che possa contagiare, nel senso buono, chi ci circonda. Credo ciò sia un obiettivo a cui tendere, a cui arrivare, perché penso che sia un’evoluzione dell’essere umano non solo dell’essere educatore, educatrice, genitore.
Simona: ringrazio Stefania, che ha definito la colazione di oggi, colazione dell’anima e termino con la frase conclusiva scelta per questa nostra mattinata. Una frase che guarda al futuro. L’ha scritta Maria Montessori: “L’età più importante per l’uomo è dalla nascita ai due anni. In questo periodo ogni nostro atteggiamento nel trattare il bambino non si riflette solo su di esso ma nell’adulto che ne risulterà”
Silvia: bellissimo. Io aggiungerei anche il periodo pre-natale: le ricerche ce lo stanno dicendo in maniera chiarissima. Il periodo prenatale è estremamente fondante e anche le neuroscienze ci stanno evidenziando sempre più, contrariamente a quanto si pensava fino a poco tempo fa, che più le tracce, le memorie, sono precoci e più sono di impatto a lunghe distanze. Quindi per noi la responsabilità è tanto grande perché abbiamo in mano questa plasticità, questa plasmabilità dell’essere umano alle origini in cui è massimamente plastico e dove davvero abbiamo questa opportunità di creare fondamenta salde e solide per la crescita umana, non solo nel presente ma nel futuro. Per creare società differenti. In PF06 questa è la nostra attenzione: lavorare per creare una cultura educativa che modifichi lo sguardo sui bambini e le bambine e che permetta di costruire percorsi di crescita davvero in grado di incidere nella società dell’oggi e del futuro, perché crediamo sia possibile un mondo di pace e che questo possa partire proprio dalle pratiche educative. Io ci credo e penso davvero che quello che facciamo con i bambini e le bambine possa aver un ritorno molto grande per loro stessi e per tutto il pianeta.
Per fortuna non siamo da sole in PF 0-6 siamo in tanti.
Simona: Colazione per il cuore e per la mente. Abbiamo parlato di cura ed è stata un auto-cura, le vostre parole curano. Quindi prendersi cura con cura è il nostro pensiero.