di Silvia Iaccarino, pubblicato su Mondo 0-3, dell’editrice La Scuola, nel novembre-dicembre 2013
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Il termine “resilienza” (dal latino resilio = tornare indietro/rimbalzare), fino ad alcuni decenni fa utilizzato esclusivamente nell’ambito della fisica dei materiali per identificarne la capacità di resistere agli urti assorbendoli senza rompersi, a partire dagli anni ’80 ha iniziato a essere impiegato anche nelle scienze umane, connotando in questo caso “la capacità di una persona o di un sistema sociale di vivere e svilupparsi positivamente, in modo socialmente accettabile, nonostante le difficili condizioni di vita” 1.
La resilienza viene considerata da alcuni ricercatori come risultato positivo a seguito di un evento traumatico, mentre altri la connotano come processo dinamico in grado di consentire a un individuo o a un gruppo di adattarsi positivamente alla vita nonostante un contesto significativamente problematico.
Al di là dei differenti punti di vista, un elemento comune nella definizione di resilienza riguarda il focus sulla possibilità per gli umani di fronteggiare gli eventi negativi senza “disgregarsi”. Non solo: la persona resiliente, oltre a resistere agli urti nel suo percorso di vita, opera anche un lavoro di trasformazione, per cui è in grado di tramutare la sua ferita in una forza e, così, di crescere.
È importante evidenziare che la persona resiliente non è invulnerabile. Come tutti, viene toccata dagli eventi stressogeni e dolorosi, ma nonostante questo è in grado di affrontarli e superarli positivamente; inoltre, non nega né rimuove il dolore, bensì lo utilizza come un’importante occasione di sviluppo personale.
La resilienza, tra l’altro, rappresenta un elemento importante nella riflessione relativa allo sviluppo umano. Ormai è stato ampiamente superato il modello di causalità lineare, causa-effetto (se succede A, ne consegue B), oggi sostituito da un modello probabilistico, che evidenzia l’importanza di fattori di protezione e di rischio come elementi significativi nel percorso di crescita, sottolineando come questi ultimi non determinino in modo lineare l’insorgere di psicopatologie o disagi.
All’interno di questo modello la resilienza viene considerata un fattore protettivo, consentendo di far fronte positivamente a quegli eventi che, in maniera soggettiva, la persona vive come traumi.
La resilienza trae le sue radici da altri fattori a loro volta protettivi: oltre alle caratteristiche biologiche e genetiche (che interagiscono con tutti gli altri fattori), ritroviamo fattori personali, familiari e ambientali.
Principali fattori personali, familiari e ambientali che influenzano la capacità di essere resilienti (Milani, 2008)
Fattori individuali
• Buone capacità intellettive
• Buone capacità sociali, competenze comunicative, empatia
• Buona autostima, senso di autoefficacia, autoconsapevolezza, ottimismo
• Locus of control interno (tendenza a interpretare i risultati e gli effetti delle proprie azioni come determinate più dai propri comportamenti che da forze esterne non controllabili)
• Capacità attiva di coping (capacità di far fronte alle situazioni) orientato ai problemi
• Senso dell’umorismo.
Fattori familiari
• Struttura educativa adeguata: stile educativo autorevole, con equilibrio tra aspetti affettivi e normativi
• Clima familiare affettuoso e caldo e interazione positiva col bambino
• Credo e valori familiari
Fattori ambientali
• Ricca rete sociale di pari
• Presenza di un adulto significativo e positivo al di fuori della famiglia (quello che Cyrulnik chiama tutore dello sviluppo)
• Aiuto ai genitori rispetto all’educazione dei figli –sostegno alla genitorialità
• Ambiente sociale non punitivo
• Buone relazioni informali, comunità supportante
• Partecipazione ad una struttura sociale positiva
• Ambiente scolastico attento e adeguato successo scolastico
In questo senso, la resilienza può essere vista come un processo, “risultato del modo in cui i fattori protettivi si amalgamano e assumono forme dotate di significato in relazione alla specificità della fase di sviluppo, della storia, degli eventi, del contesto, diventando così parte di un processo compensatorio che serve a promuovere l’adattamento” (Di Blasio, 2005).
L’educatrice come “tutore dello sviluppo”
Le ricerche sui fattori di sviluppo della resilienza hanno mostrato, in particolare, come la presenza di un attaccamento sicuro del bambino con chi si prende cura di lui costituisce un importante fattore protettivo, in grado di sostenere lo sviluppo della resilienza e rendere pertanto gestibili in modo costruttivo gli eventi sentiti come dolorosi.
A differenza di quanto si riteneva in passato, oggi sappiamo che i bambini sviluppano attaccamenti multipli, cioè creano un legame, che può differire in ciascuna relazione nelle sue caratteristiche, con più figure di riferimento. Ciò significa che, per esempio, un bambino può sperimentare un attaccamento sicuro con la madre e insicuro con il padre o viceversa e così via. Chiaramente, in quest’ottica, anche le educatrici rappresentano un’importante risorsa: un bambino che, per esempio, ha sviluppato in famiglia dei legami insicuri, potrebbe vivere un’esperienza diversa stabilendo un legame sicuro al nido.
Le educatrici vengono a costituirsi quindi come tutori di sviluppo “semplicemente” svolgendo il proprio lavoro. Il tutore dello sviluppo è una figura (un educatore, un insegnante, uno zio, un vicino di casa, un amico…) che si rapporta in modo positivo, caldo e sensibile all’altro, offrendo una presenza affidabile e rassicurante in grado di valorizzare, ascoltare, riconoscere l’altro. Le ricerche evidenziano che, per costruire la resilienza e far fronte positivamente agli urti della vita, per i bambini può essere sufficiente incontrare almeno un adulto “positivo” nel corso della loro esistenza: l’educatrice può essere quell’adulto e fare davvero la differenza nella vita dei piccoli.
Cosa fanno i tutori dello sviluppo?
- Ascoltano i bambini senza giudicarli e li aiutano a rielaborare le loro esperienze in modo costruttivo. Cyrulnik (2005) evidenzia l’importanza del dare significato alle esperienze in chiave positiva per costruire la resilienza: “Senza saperlo possiamo elaborare la rappresentazione (di quanto ci accade,
nda) per tutto il tempo della nostra vita e trasformare la realtà per farne delle meraviglie o degli orrori, delle felicità o delle tristezze, delle benedizioni o delle maledizioni. (…) Il trauma esiste nel reale e persiste nella memoria, ma i nostri strumenti verbali, affettivi e culturali ci danno il potere di rimaneggiare la rappresentazione, costituendo così un precedente per la resilienza”. Nelle attività con i bambini, poi, le educatrici possono leggere, drammatizzare, raccontare storie e favole, che mostrino loro come sia possibile superare le difficoltà (vedi box “Il pentolino di Antonino”), aiutandoli a comprendere come altri ci sono riusciti e costruendo la speranza di potercela fare a propria volta. Inoltre, nella programmazione, è possibile prevedere giochi e attività che facilitino i bambini nel raccontarsi non solo sul piano verbale, ma anche con l’espressione grafica, la musica, il corpo, il gioco simbolico.
- Promuovono lo sviluppo delle competenze sociali nel gruppo dei pari e la prosocialità (appartenere a un ricco e positivo gruppo di pari è un dimostrato fattore di protezione nella crescita).
- Sostengono i genitori nel trovare delle modalità efficaci per relazionarsi coi propri figli e per affrontare le problematiche quotidiane, aiutandoli a guardare alle fatiche dei bambini con speranza e positività, inserendole all’interno del processo di crescita.
Nell’articolo in pdf, trovi la recensione del libro “Il Pentolino di Antonino”.
Riferimenti bibliografici
- I. Carrier, Il pentolino di Antonino, Kite, Padova 2011.
- B. Cyrulnik, La resilienza: una speranza inaspettata, in Costruire la resilienza. La riorganizzazione positiva della vita e la creazione di legami significativi (a cura di B. Cyrulnik, E. Malaguti), Erickson, Trento 2005.
- B. Cyrulnik, Parlare d’amore sull’orlo dell’abisso, Frassinelli, Milano, 2005.
- B. Cyrulnik, I brutti anatroccoli, Frassinelli, Milano 2005.
- P. Di Blasio (a cura di), Tra rischio e protezione. La valutazione delle competenze parentali, Unicopli, Milano 2005.
- M. Malacrea, Il ‘buon trattamento’: un’alternativa multiforme al maltrattamento infantile, in “Cittadini in crescita”, n. 1,2004.
- E. Malaguti, Educarsi alla resilienza, Erickson, Trento 2005.
- P. Milani (a cura di), Co-educare i bambini, Pensa Multimedia,Lecce 2008.
- P. Milani, M. Ius, Educazione, pentolini e resilienza, Kite, Padova, 2011.
Nota
1 Vanistandael, citato in “Educazione, pentolini e resilienza” di P. Milani e M. Ius, edizioni Kite, Padova 2011.
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