di Annalisa Falcone, pedagogista
Fare educazione significa riuscire a muoversi in un equilibrio di tanti fattori, tra gesti e parole, tra silenzi e passi indietro, tra domande interessanti e acuta osservazione.
Le professioniste dell’educazione sono come navigatrici esperte che hanno bisogno di trovare la corretta rotta in un mare sempre tempestoso, attraversato da diverse correnti.
Data la complessità e le innumerevoli sfide, c’è il rischio di distogliere la nostra attenzione da uno dei linguaggi più potenti che abbiamo a nostra disposizione: quello delle parole.
Sono tempi in cui sembra che la narrazione tossica abbia preso il sopravvento, e diventa fondamentale fare nostra la capacità di comunicare in un’ottica più positiva e calibrata, non solo grazie ad una maggiore pulizia dalla negazione in tutto il nostro apparato comunicativo, ma soprattutto ponendo attenzione alle storie che raccontiamo tramite il lessico che usiamo nella nostra quotidianità.
Prediligiamo un vocabolario dove mascherine, gel e terrore non siano gli unici protagonisti. Raccontiamo storie altre a quelle che si ascoltano al tg, storie sbilenche, a gambe in giù, storie per ridere e pensare, storie diverse dal terrorismo e dall’isolamento, storie per costruire ricordi di ottimismo in un periodo in cui la fatica ci invade.
Per chi si occupa di educazione, si tratta di coltivare e condividere uno stato di fiducia elevato verso il futuro, e dunque anche la possibilità di scoperta, di ricerca ampia, di domande aperte e ricche di sfumature. Ritengo sia tra i compiti essenziali per chi ha scelto di fare dell’educazione la propria professione.
L’incertezza è entrata ormai a far parte dell’ordinarietà e questo si traduce anche in una maggior sensibilità verso le parole dette, sussurrate, o affermate a gran voce.
Provare emozioni contrastanti rientra in uno stato di normalità: come accogliere la nostra paura verso il futuro in luoghi e spazi sicuri, accoglienti ed adeguati a contenere il nostro bagaglio emotivo? Dobbiamo compiere un costante lavoro su di noi, anche ripulendo da negatività e pessimismo la nostra comunicazione.
L’infanzia del 2021 è già carica di aspettative rigide, richieste eccessive tra l’estrema digitalizzazione e le rinunce sempre maggiori decise dai grandi ed i bambini non possono, non devono, vivere in un periodo in cui il linguaggio èintriso di timori e paure dell’altro.
Non si tratta di inventare una realtà fatta esclusivamente di colori pastello, in cui le emozioni spiacevoli non sono concesse, ma significa creare una sfumatura linguistica adatta all’età dei bambini che possa ispirare speranza per il futuro.
Come professioniste, ma soprattutto come adulti, risiede in noi la responsabilità di essere dei porti sicuri, braccia calde per permettere che le bambine e i bambini siano davvero tali, senza consegnare loro un eccessivo carico di ansia.
È nostra la responsabilità di trovare una modalità adeguata capace di trasmettere la difficoltà nel quale siamo immersi con onestà ma anche speranza per gli eventi, nonostante le dovute preoccupazioni e perplessità.
Accogliamo le sfide del nostro tempo con la fiducia che caratterizza il nostro ruolo e focalizziamoci sull’essere degli autentici sostenitori di una reale cultura dell’infanzia.