di Annalisa Falcone, pedagogista
La parola più gettonata in queste ultime settimane è ripartenza. Tra cui scuole e servizi per l’infanzia. Con grande frenesia di tutti i professionisti del settore, divisi tra la voglia di riaprire i cancelli delle proprie classi, l’attesa di direttive dall’alto, la pianificazione di possibili scenari e i differenti dibattiti sul livello di rischio che si corre.
Il trasferimento all’estero mi ha permesso di allargare lo sguardo e di capire, soprattutto in situazione di crisi, che comprendere ciò che fanno al di là delle nostre Alpi, è sempre un buon punto di partenza per far sorgere un pensiero. Non con la presunzione che, oltre i nostri confini, sia tutto perfetto ma capire come i nostri alleati si stanno adoperando per risolvere la medesima situazione di emergenza. Questa valutazione ci permette di osservare possibili soluzioni da diverse angolazioni che possono essere preziose.
Per progettare scenari possibili, e andare oltre il “Non è possibile lavorare così’”.
La risposta dell’Europa all’inizio del contagio è stata univoca per tutti: la chiusura dei servizi educativi e scolastici. Se per l’Italia e la Spagna è stata una misura globale, per il resto dei paesi si è tradotta in modo parziale. Una parte delle scuole è rimasta aperta per garantire il servizio di cura per i key workers, ovvero tutto il personale che lavora per la comunità come medici, infermieri, poliziotti, personale dei supermercati, operatori dei mezzi di trasporto. Inoltre, alcune scuole si sono offerte di garantire il servizio scolastico per i ragazzi con disabilità, per supportare i genitori in questa fase delicata.
I servizi educativi hanno cercato di affrontare la situazione, applicando delle misure di sicurezza che non snaturassero il lavoro di cura e sostegno delle educatrici.
Questo ha comportato dei cambiamenti a livello gestionale di alcune pratiche che hanno reso tutto più meccanico ma, di fronte ad una pandemia mondiale, assolutamente necessarie. Almeno come prima misura cautelare.
La via di mezzo adoperata in questo senso è stata un contratto con le famiglie di reciproco sostegno, soprattutto per quanto riguarda i contatti con l’esterno. Ognuno poteva lavorare per il benessere dell’altro, se da entrambi le parti ci fossero stati i prerequisiti di restringere i contatti con l’esterno al minimo esponente di rischio. Insomma nessuno avrebbe dovuto partecipare ad assembramenti che avrebbero potuto mettere in pericolo bambini, staff educativo ed anche tutte le famiglie coinvolte. Andare al lavoro è consentito, fare feste, barbeque a casa no.
Il primo passo è stato un rinnovo del patto di fiducia tra tutti gli attori coinvolti. Anche per tutto ciò che concerne alcune prassi consolidate, e una buona fetta di pazienza e tempo aggiuntivo che tutte le azioni volte alla sicurezza richiedono.
Una delle dinamiche che è stata stravolta riguarda l’ingresso nel servizio educativo. Sappiamo quanto sia delicato il momento dell’accoglienza, i fili che si muovono sono sempre delicati e farlo con guanti e mascherine non fa parte delle azioni che si sposano ad un clima di fiducia reciproca tra famiglie ed educatrici e, soprattutto, non crea quell’ambiente sereno e di supporto, necessario allo sviluppo dei piccolini.
Bisognava trovare una soluzione.
Per questo, l’equipe di cui faccio parte ha consentito l’ingresso in struttura solo per i bambini, e non gli adulti. Il passaggio di consegne avviene di fronte alla porta, con il lavaggio delle mani e il controllo della temperatura obbligatorio per piccoli e grandi appena si varca la soglia.
Per i bambini che conoscono bene le proprie educatrici e il proprio servizio educativo non è stato un cambio iper sconvolgente. I gruppi formati sono stati di una educatrice per 5 bambini, le dimensioni ridotte della nursery hanno facilitato questa nuova composizione.
Si è deciso di non far indossare guanti e mascherine a tutta l’equipe educativa, per non mettere filtri e ostacolare la relazione educativa ed in modo particolare per non creare un clima asettico e di paura attorno ai bambini.
Il tema della sicurezza è stato affrontato disinfettando in continuazione tutte le superfici, con un lavaggio delle mani frequente durante il corso della giornata. Sono stati ripensati anche i materiali utilizzati, per una prevalenza del legno e di oggetti in vetro, metallo, ceramica che possono essere facilmente lavati e disinfettati. Il fatto di essere una nursery Montessori, ha facilitato questo compito. Abbiamo accantonato i materiali destrutturati in prima istanza, rimandando ad una fase successiva su come adoperare questo tipo di sensorialità, pienamente consapevoli della sua importanza.
Per questo motivo, alle famiglie e bambini è stato chiesto di non portare oggetti, e giochi da casa. Scelta fatta a discapito di tutti gli oggetti transizionali, soprattutto peluche e coperte che i bambini hanno dovuto lasciare a casa. Con qualche momento di tristezza durante la nanna, ma superato con una buona dose di comprensione da parte di piccoli e grandi, parole dolci e accoglienti, pazienza e un tempo di assestamento per tutti. In questo senso, conoscere già la struttura, ha facilitato questo tipo di distacco. Si utilizzano delle coperte e peluche per questi momenti più sensibili, che dopo vengono lavati e igienizzati in modo efficace.
Il rapporto tra adulti è dettato dalla distanza di sicurezza, con una buona dose di buon senso della valutazione della situazione. Sempre con il patto imprescindibile che siamo una squadra che lavora insieme e, se si ha bisogno di aiuto, questo deve essere verbalizzato a chiare lettere senza timori.
“We are a team” è la frase che ho sentito maggiormente da quando lavoro nelle nursery. Richiesta che non è stata fatta invece ai piccoli, per non indebolire tutta la parte di competenza sociale che si sta costruendo giorno dopo giorno. Abbiamo la fortuna (che spesso ho considerato come una grande difficoltà) di avere degli spazi ridotti, per cui l’incontro tra i vari gruppi divisi nelle varie classi è possibile ma non istantaneo.
Se un adulto dovesse starnutire o tossire, vige l’obbligo di farlo nel gomito per il benessere complessivo di tutti. I bambini hanno iniziato ad imitare questa pratica, e se per fortuna ora vedono tutto come un gioco, dopo poitrà essere una buona pratica da interiorizzare.
Ci sono dei turni per utilizzare il giardino, ma gli spazi ristretti di Londra sono la norma da queste parti, e non ci sono stati stravolgimenti in questo senso. Sempre con la consapevolezza che l’outdoor education non è la soluzione possibile, ma un pensiero verso un’educazione che miri ad un rapporto sincero e concreto di apprendimento come possibilità in un contesto naturale. Qui è consolidata l’abitudine di fare lo snack fuori, utilizzando coperte, o cuscini o delle costruzioni di legno che sono molto grezze ma permettono utilizzi vari e diversificati. I bambini, dopo il primo periodo di ambientamento, hanno fatto loro alcune pratiche di autonomia inerenti alla cura degli ambienti ed all’uso degli strumenti durante i pasti, come brocche d’acqua, forchette, e tutto ciò che serve per il lavaggio di piatti, bicchieri e tovagliette.
Per il feedback a fine giornata, vengono usati dei quaderni dove ogni giorno famiglie ed educatrici ed educatori (si abbiamo anche qualche uomo!) si scambiano le informazioni che riteniamo più utili.
È un modo per ripartire, senza avere la presunzione di adottare la soluzione universale per ogni singola struttura. Non ci sono ricette magiche, e soprattutto in educazione, non ci sono verità assolute.
Utilizziamo delle pratiche che per il nostro servizio educativo, per i nostri genitori e soprattutto bambini, funziona. Con tutti i limiti, confini e ostacoli che si incontrano tutti i giorni.
Come staff, abbiamo deciso di rispondere ad una serie di richieste dei nostri genitori, e lo Stato ci permette di esercitare con la consapevolezza che il nostro ruolo non può essere svolto attraverso dei dispositivi artificiali come mascherine e guanti. Questo pensiero si è tradotto nella consapevolezza che come categoria professionale, in Inghilterra definita come “Key workers” ovvero “mestiere chiave” per la società, abbiamo il dovere di esercitare il nostro ruolo adottando tutte le buone pratiche che consentano di farlo in modo protetto. Abbracciando la filosofia di pensiero che il nostro ruolo comporta dei rischi, e come adulti prima ed educatrici poi, dobbiamo comprendere l’impossibilità di controllare qualsiasi dinamica ruoti attorno alle relazioni umane e sociale.
Differenza di pensiero che all’estero spesso (non sempre), si traduce in una ricerca di progettualità che vada oltre la mera difficoltà, e tanta paura che di fronte ad una pandemia globale tutti proviamo. Attiviamo il pensiero critico che vogliamo stimolare ai bambini, diventiamo noi per primi degli architetti dell’educazione, mettendo in atto gli strumenti che abbiamo a disposizione. Con l’accoglienza che gli sbagli sono concessi, ma anche le riflessione di un pensiero creativo che veda nelle difficoltà delle opportunità.
Perché come afferma Daniela Lucangeli, “Come professionisti dell’educazione, possiamo essere delle possibilità per chi ci sta di fronte, il loro differenziale di sviluppo”.