di Silvia Iaccarino, formatrice, psicomotricista, fondatrice di PF06
Quante volte durante le consulenze sentiamo usare le espressioni bambini dispettosi, bambini aggressivi, bambini che ci sfidano. Un tema sempre caldissimo che mette in crisi genitori, educatrici, educatori, insegnanti. In età prescolare capita che bambini e bambine manifestino determinati pattern comportamentali che noi adulti definiamo sfida.
Siamo sicuri che si tratti davvero di questo? Possiamo parlare di bambine e bambini dispettosi, sfidanti, arrabbiati e persino violenti?
In questo articolo proviamo a dare una risposta, frutto di anni di studio ed esperienza sul campo. Le riflessioni riportate qui sono valide in modo trasversale sia nei contesti educativo-scolastici che a casa, in particolare nello 06 (ma con gli opportuni adattamenti anche negli anni successivi). Vediamo insieme cosa significa che bambine e bambini ci sfidano e in che modo possiamo agire per sostenere la loro crescita con strategie educative adeguate.
Indice dell’articolo
L’idea di bambini dispettosi appartiene alla pedagogia nera
Dalla sfida al riconoscimento della difficoltà
Quali sono le cause della fatica (non della sfida)?
Qual è il nostro compito? Come possiamo agire?
Le strategie per superare i momenti di sfida
I bambini hanno il diritto di dire NO
Un percorso di crescita per noi adulti
L’idea di bambini dispettosi appartiene alla pedagogia nera
La parola sfida appartiene al linguaggio degli adulti: tendiamo a usarla come etichetta per definire determinati comportamenti dei bambini e delle bambine, di solito quelli che manifestano quando diamo un limite, un confine, un divieto.
Di fronte al nostro NO il bambino o la bambina reagisce alla situazione a volte ridendoci in faccia altre con comportamenti oppositivi e ostili che noi adulti, genitori, educatrici, educatori, insegnanti definiamo sfidanti sulla base delle teorie e degli insegnamenti che ci abitano rispetto all’infanzia.
Non si tratta di un’interpretazione oggettiva: leggiamo la sfida e i comportamenti di bambine e bambini dispettosi indossando degli occhiali, dei filtri con cui guardiamo il mondo e che, in base al nostro universo di senso, alla nostra idea di infanzia e di educazione distorcono la realtà.
Questo pensiero deriva dall’educazione ricevuta durante la nostra infanzia: molti di noi sono cresciuti con i dogmi della pedagogia nera, un approccio usato nel mondo occidentale per educare bambini e bambine con una modalità coercitiva e prevaricante, dove l’adulto è il padrone e il bambino deve obbedire in maniera servile.
Ovvio, non vogliamo attribuire colpe ai nostri genitori che nulla sapevano di pedagogia, di educazione, e che non avevano le neuroscienze a supporto: loro hanno fatto quello che potevano con la conoscenza e la consapevolezza del tempo.
Oggi, per fortuna, abbiamo una consapevolezza diversa: possiamo aggiornare il nostro sguardo sull’infanzia grazie agli studi, alla ricerca, alla letteratura scientifica che spiegano come funzionano i bambini e che cos’è la sfida.
Quando un bambino ci ride in faccia, quando un bambino si oppone, si ribella, risponde male, cambiamo lenti e proviamo a non vedere più il comportamento come una sfida, un’opposizione, una ribellione.
Dalla sfida al riconoscimento della difficoltà
Ecco cosa accade: quando un bambino, una bambina è in difficoltà per diversi motivi, può sentirsi disconnesso da noi adulti, percepisce una distanza, un distacco relazionale e non è più in grado di seguire la nostra guida e di essere influenzato in modo favorevole dalla nostra leadership.
Il rapporto tra adulti e bambini dovrebbe basarsi sulla parità di valore. Il bambino vale tanto quanto noi, né di più né di meno, ma allo stesso tempo noi adulti – per questioni di età, esperienza, conoscenze, competenze e capacità – abbiamo il ruolo di guida.
Nel momento in cui cominciamo a indossare sguardi diversi verso l’infanzia, i comportamenti che fino a ieri definivamo sfida, oggi possiamo concepirli come una richiesta di aiuto.
Si tratta della manifestazione di una difficoltà emotiva importante da parte del bambino e della bambina che, in fascia prescolare, non sa nemmeno come esprimere la fatica perché non ha gli strumenti per farlo.
E anche se avesse quattro, cinque anni, non è detto che sia in grado di dire a parole come si sente dal punto di vista emotivo e raccontare la difficoltà che sta attraversando in un dato momento.
Impariamo a considerare il comportamento come un messaggio, un linguaggio, una comunicazione.
Il comportamento non è un tratto del carattere del bambino, della bambina, ma è un linguaggio che utilizza per comunicare.
Quando un bambino si comporta in modo scorretto noi tendiamo a dire: è dispettoso, oppositivo, ribelle, testardo, lagnoso, capriccioso, sfidante, aggressivo o violento.
Usiamo una serie di etichette che definiscono aspetti del bambino come se fossero modalità espressive di un suo essere. Ma quei comportamenti sono una comunicazione.
Il bambino, la bambina, sta dicendo: ho fame, sonno, sete, sono stanco, mi sento sovraccarico, mi sto annoiando, sono frustrato, mi sento triste, mi sento disconnesso da te, ho bisogno di una guida, ho bisogno di un orientamento, non ho capito cosa sta succedendo intorno a me, mi servono delle informazioni.
Bambini e bambine, soprattutto in fascia prescolare, non hanno ancora le competenze per comunicare con esattezza ciò che provano: il nostro compito è essere dei traduttori, degli interpreti, il più possibile in linea con il linguaggio che i piccoli usano in modo inconsapevole, involontario.
Gli atteggiamenti che spesso leggiamo come fatti apposta, lo sono solo nella nostra mente e non nella realtà.
Il bambino, la bambina, non lo fa apposta contro di noi ma cerca di dire ‘aiutami’, e lo fa come può.
Vediamo e viviamo a nostro modo le situazioni anche in base agli strumenti e alle risorse che abbiamo a disposizione, alle idee implicite ed esplicite, alle teorie che ci abitano, alla nostra esperienza.
Per questo possiamo vedere il medesimo comportamento in modi differenti in base agli occhiali che indossiamo per guardare.
Cambiamo occhiali: buttiamo via le lenti della pedagogia nera e prendiamo gli occhiali della pedagogia bianca che interpreta i comportamenti dei bambini e delle bambine come qualcosa di non fatto apposta e che non appartiene al carattere del bambino, della bambina.
Si tratta, piuttosto, del linguaggio che usa per manifestarsi e comunicare.
Quando compiamo un errore?
Nel momento in cui Giovanni o Lucia ci sfida perché è in difficoltà e lo comunica con un comportamento che leggiamo come sfidante, diciamo a Giovanni o a Lucia “Sei un monello, sei una monella, ti comporti male, non ne fai mai una giusta, come ti permetti”. Sono espressioni che etichettano. Dato che bambini e bambine non nascono con un’idea di sé preformata – perché non hanno ancora le competenze e gli strumenti emotivi o cognitivi per avere una struttura che permetta loro di costruire subito un’identità – costruiscono la personalità nell’interazione e nella relazione con l’adulto.
Quando restituiamo un certo tipo di sguardo, il bambino/a lo prende, lo introietta e pensa: “Ok io sono monello, oppositivo, ribelle, dispettoso perché mi dicono che sono così”.
Ecco perché è fondamentale osservare i comportamenti come la manifestazione di una fatica e, quindi, un messaggio.
Quali sono le cause della fatica (non della sfida)?
I motivi sono molteplici. La causa scatenante può essere un limite, un confine, un divieto, una situazione in qualche modo richiedente verso il bambino, la bambina, che a quel punto si oppone in varie forme più o meno ostili, esplicite, ferme e dure.
Quando notiamo un comportamento di questo tipo fermiamoci e domandiamoci:
- cosa sta comunicando con questo atteggiamento?
- Qual è la sua fatica?
- Dov’è in difficoltà?
- Di cosa ha bisogno per attraversare questa mia proposta di indicazione, limite, divieto, richiesta?
- In che modo posso aiutare il bambino o la bambina a orientarsi diversamente in questa situazione?
Partiamo dal presupposto che il suo comportamento non è la manifestazione del suo carattere, ma una forma di linguaggio.
Questo aspetto è importantissimo anche per lavorare sulle nostre aspettative, senza pensare di dover correggere un lato del suo carattere.
Osserviamo la situazione: la sfida del bambino, della bambina, esprime un momento di disconnessione relazionale. Il piccolo non segue la nostra guida, percepisce un allontanamento perché, magari, noi adulti stiamo facendo altro o pensando ad altro, non siamo lì presenti con lui, lei (è legittimo, ci mancherebbe, non possiamo essere 24/24 in connessione col bambino o la bambina).
Ci può essere un momento di disconnessione legato alla contingenza, ma può essere anche un momento in cui il bambino/a perde la connessione perché percepisce un bisogno che lo soverchia: fame, sonno, sete, stanchezza, senso di sovraccarico, frustrazione, esplosione emotiva.
Qual è il nostro compito? Come possiamo agire?
- Prima di tutto, lo ribadiamo a costo di sembrare ridondanti, ricordiamo che il comportamento non è la manifestazione del carattere del bambino o della bambina ma è il suo modo di dirci che è in difficoltà.
- Riconfiguriamo, re-incorniciamo, re-inquadriamo il comportamento e allontaniamoci dall’idea che sia fatto apposta. Guardiamo il comportamento in un’ottica di non intenzionalità ad attentare la nostra autorità, ma come la comunicazione di una fatica, di una disconnessione.
- Riconnettiamoci: qualsiasi tipologia di strategia educativa vogliamo o possiamo mettere in atto necessita di una connessione con il bambino, la bambina, altrimenti non funzionerà. Entriamo in una modalità di funzionamento nella quale pensiamo: “Ok, sta succedendo questo, non lo sta facendo apposta, non attenta alla mia autorità, lo aiuto”.
- Ultimo step, utilizziamo la strategia educativa più adatta a quel contesto, situazione, momento contingente.
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Le strategie per superare i momenti di sfida
Ecco un elenco di strategie educative che possiamo mettere in atto in queste occorrenze. Non sono regole universali, ma le adatterai al tuo contesto, in base a quello che può essere più funzionale per i tuoi bambini e bambine.
- Accogliere, legittimare, convalidare l’emozione
Questo può essere un primo approccio: “Giovanni, Lucia, ti capisco, mi stai dicendo di no perché non vuoi fare il bagno. Per te è difficile in questo momento entrare nella vasca, andare sotto la doccia”.
Oppure: “Ti stavi divertendo così tanto a giocare di là? Eh, lo capisco, hai ragione. È difficile”.
- Offrire il contatto fisico
Subito dopo la validazione dell’emozione del bambino, bambina, possiamo offrire un contatto fisico se gradito. Quando i piccoli ci sfidano, esprimono un’emozione che di solito appartiene alla frustrazione o alla rabbia. Prima legittimiamo, perché il bambino ha diritto di provare qualsiasi emozione. Se il bambino/a accetta un contatto fisico, possiamo anche offrire un abbraccio.
A volte quando suggeriamo il contatto fisico, i genitori o gli educatori si oppongono: “Eh, ma se io do un contatto fisico al bambino/a nel momento in cui lui o lei mi sta sfidando, lo premio”.
No, non stiamo premiando nessuno: il contatto fisico produce ossitocina, un ormone che contribuisce, insieme agli oppioidi e alle endorfine, a riportare la calma neurofisiologica nel corpo del bambino/a.
È la modalità più veloce che abbiamo per stimolare nel cervello degli umani la secrezione di ossitocina e di endorfine.
Il contatto fisico non è un premio, ma un intervento educativo a tutti gli effetti che, se il bambino/a accetta in quel momento, può cambiare la chimica del sistema nervoso.
I comportamenti sono la punta dell’iceberg, gli ormoni sono sotto il livello dell’acqua: le emozioni – come dice Paolo Borzacchiello – sono ormoni con sopra un’etichetta. Rabbia, tristezza, paura, frustrazione.
Vogliamo cambiare l’emozione e il comportamento? Cambiamo gli ormoni che circolano nel bambino, bambina.
Il contatto fisico è una strategia educativa di grande valore, non è un premio perché non stiamo facendo le coccole al bambino, ma stiamo scientificamente e scientemente agendo un comportamento che, se il bambino gradisce, lo aiuterà a cambiare la chimica del suo corpo, a tornare più calmo.
- Offrire una guida, un supporto
Una volta trovata la calma, possiamo procedere con la guida perché il bambino/a è più riconnesso a noi da un punto di vista relazionale.
Valutiamo quanto possiamo essere flessibili senza irrigidirci troppo su alcune posizioni. Torniamo all’esempio del bagno o della doccia: il bambino non vuole lavarsi. Se non è infangato dalla testa ai piedi, possiamo scegliere di lavarlo a pezzi. Oppure dire: “Guarda, Giovanni, tutto sommato hai ragione, non sei così sporco alla fine. Facciamo così, diamoci una passata veloce alle mani e al viso. Poi la doccia la facciamo in un momento diverso, non c’è problema”.
Se invece il bambino è infangato da capo a piedi, possiamo dire: “Guarda Giovanni, guarda Lucia, capisco che per te il bagno sia veramente difficile ho comprensione, però sei così tanto sporco, così tanto sporca, dobbiamo proprio lavarci”.
- Trovare un approccio ludico
Cerchiamo di trovare un modo creativo, ludico, giocoso, per coinvolgere bambini e bambine, perché il gioco – soprattutto nello 06 – è la strada maestra per fare tutto.
Il bambino non vuole fare la doccia? Possiamo dire: “Ah non vuoi fare la doccia? Adesso io ti rincorro per tutta casa finché non riusciamo ad andare sotto la doccia, scappa eh che ti prendo ti prendo!”.
Se il bambino/a non è proprio in preda a una crisi emotiva intensa, possiamo venirne a capo. Proviamo a essere più flessibili, meno rigidi, più giocosi e creativi.
Nel caso in cui la crisi emotiva fosse forte, accogliamo la situazione: “Caspita Giovanni, proprio non vuoi fare il bagno. Piangi pure, io sono qui con te. Quando hai finito di piangere prendiamo la tua macchinina preferita e la portiamo con noi a fare un bagno, che dici?”.
I bambini hanno il diritto di dire NO
Bambine e bambine hanno il diritto di dire no, di esprimere sé stessi, stesse dicendo “Io oggi questa cosa non la voglio fare”.
Noi adulti abbiamo già questa possibilità: se un giorno non abbiamo voglia di fare la doccia, semplicemente non la facciamo e nessuno ci obbliga a lavarci, giusto? Idem se non vogliamo mangiare la pasta al pesto, per dire.
Però, chissà come mai, i bambini non possono avere tale libertà. Perché?
Bambini e bambine, a prescindere dall’età, sono persone e hanno il diritto di esprimere il proprio parere, soprattutto su questioni che non arrecano danno al prossimo e a loro.
Spesso noi adulti lavoriamo con l’idea del ‘se non impara adesso, non imparerà mai più’ ma è un retaggio che risuona nella nostra mente, è quello che ci hanno detto i nostri educatori, i genitori, insegnanti.
Retaggio scorretto: i bambini e le bambine imparano con l’esempio. È semplice: se vedono che i genitori fanno la doccia tutte le sere, imparano a fare altrettanto. Se vedono che mangiamo frutta e verdura, la mangiano anche loro. Se salutiamo le persone con un cortese buongiorno, lo faranno anche loro. Se ringraziamo, siamo cortesi, chiediamo ‘per favore’, impareranno di conseguenza dai nostri atteggiamenti.
Riponiamo fiducia nei bambini e nelle bambine, fiducia nel processo di crescita insito nel DNA di ciascuno di noi. Abbiamo bisogno di essere buone guide, buoni esempi, buoni modelli, e avere fiducia che questi comportamenti lavoreranno negli anni.
Diamo modo e tempo a bambine e bambine di imparare, sviluppare strumenti, risorse, capacità, abilità e competenze e trattiamoli come persone che hanno diritto di dire no.
Pensiamo ai nostri figli e figlie tra venti o trent’anni. Immaginiamoli nella società o in una relazione di coppia: la capacità di saper dire “No, questo non mi va, questo non lo voglio, questo non è buono per me” è fondamentale.
Come si comporterebbe un domani un bambino, una bambina, futuro giovane adulto che è stato abituato a obbedire senza discutere? Come potrebbe affermare in modo sano se stesso, se stessa, dando dei limiti giusti alle altre persone che magari vogliono sfruttare, prevaricare o agire cose non buone? Il NO è prezioso, ha un valore grandissimo, e noi abbiamo bisogno di prenderci cura di questo aspetto sin dai primi anni di vita di bambini e bambine.
Ora, se il bambino dice NO perché non vuole allacciarsi la cintura di sicurezza in auto, rispondiamo: “Guarda, puoi dire di no quanto ti pare, la cintura di sicurezza la metti per la tua incolumità”.
Al di là delle situazioni estreme, ci sono decine e decine di situazioni ogni giorno nelle quali possiamo accogliere il NO dei bambini e delle bambine e lavorare sulla nostra flessibilità, capacità di accogliere, ascoltare, reindirizzare e alleggerire.
I momenti che noi definiamo di sfida sono faticosi, lo ammettiamo, ma sono anche opportunità di crescita: aiutano noi professionisti e genitori ad allargare lo sguardo. Osserviamo bambini e bambine con empatia e benevolenza.
Un percorso di crescita per noi adulti
Noi adulti abbiamo il compito di crescere per primi, di seguire un percorso che ci porti verso il cuore dei bambini e delle bambine, verso la loro individualità.
In questo modo anche per i piccoli diventerà un’opportunità di crescita, manifestazione di sé, espressione del proprio mondo interiore.
Siamo di fronte a un percorso di regolazione emotiva che porta nel tempo all’autoregolazione delle emozioni, alla consapevolezza da parte del bambino, della bambina, di darsi valore e legittimare il proprio sentire.
Possiamo essere adulti empatici, accoglienti e accompagnanti, con i nostri tempi e le nostre esigenze.
Un approfondimento: la regola dei terzi.
Impariamo a essere, per usare le parole di Winnicott, sufficientemente buoni.
Non dobbiamo essere perfetti, non dobbiamo essere sempre pazienti e disponibili, ma possiamo osservare i comportamenti dei piccoli con occhi diversi per comprendere che i bambini dispettosi, sfidanti, capricciosi, aggressivi, oppositivi non esistono.
P.S. Per conoscere il significato di pedagogia nera, ti suggeriamo di leggere questo articolo di Antonella Questa: Pedagogia nera