Costruire il villaggio educante: condividere il sapere dell’esperienza attraverso i gruppi di narrazione – PRIMA PARTE

Educazione e sviluppo infantile

 

di Sabina Colombini, pedagogista, formatrice, docente di Percorsi formativi 06

 

In un articolo precedente abbiamo presentato un approccio alla relazione con i genitori, considerati soggetti competenti e portatori di saperi legati all’esperienza, costruita con il proprio bambino o la propria bambina, o vissuta, in prima persona, come figlio o figlia: il nostro bagaglio esperienziale è uno strumento formativo ed educativo potente, anche e soprattutto lì dove può essere condiviso con altri. A questo proposito, tra gli strumenti proposti dalla Metodologia Pedagogia dei Genitori (di Augusta Moletto e Riziero Zucchi) di particolare interesse nei nostri servizi assume, tra gli altri, quello dei “gruppi di narrazione”, ovvero “gruppi di incontro” con caratteristiche specifiche, considerati come attività intensiva, programmata ed intenzionale che trova le sue radici proprio nel rapporto comunicativo dialogico.

La Metodologia, come abbiamo visto, pone le proprie basi sul riconoscimento e sulla valorizzazione delle conoscenze dei genitori: nel primo caso il riferimento è alla presa di coscienza di quelle che sono le competenze educative della famiglia stessa e di tutti coloro che a vario titolo vi entrano in contatto, mentre nel secondo caso si evidenzia la necessità di un utilizzo attivo della genitorialità, vista come professionalità inserita nella relazionalità e nell’umanità tra le persone, nonché nel sapere degli esperti che si occupano di rapporti umani (Moletto, Zucchi, 2013). L’esigenza diventa quella di promuovere una professionalità pedagogica volta ad un’educazione alla e nella famiglia, intesa come nucleo affettivo (Contini, 1992, p. 114), che preveda la continuità trasversale tra ciò che avviene a casa e ciò che viene “importato” ed “esportato”, a livello di atteggiamenti, credenze, conoscenze, modelli comportamentali e valoriali nei contesti extra familiari. Da un lato, gli educatori, che nella Metodologia si presentano anch’essi in veste di genitori o figli, devono diventare consapevoli della cultura di cui sono portatori, della portata e dell’impatto di questa sulla propria prassi educativa e sulla cultura familiare, attraverso il confronto con le proprie credenze e rappresentazioni mentali (Scarzello, 2011, p. 248). Dall’altro, il genitore, non può ignorare che la propria comunicazione influisce su comportamenti e scelte dei figli e, dunque, deve avviare lo stesso processo di consapevolizzazione dell’educatore, accettando di sperimentare, all’interno del gruppo di narrazione, un’esperienza comunicativa non giudicante, in cui ognuno, attraverso il confronto, è proteso a comprendere le ragioni dell’altro nel tentativo di arricchire il proprio sapere e la propria esperienza (Contini, 1992, pp. 117, 118).

Queste considerazioni sono finalizzate a promuovere la riflessione su quanto sia importante mettere a confronto le diverse rappresentazioni mentali sugli obiettivi di sviluppo e crescita emozionale; importanza ancora più significativa in contesti come il Nido o la Scuola dell’infanzia, in cui la progettazione educativa condivisa costituisce una novità che, se gestita con attenzione fin dal principio, può tradursi in un’esperienza arricchente.

Essenziale, dunque, è “prendere in mano” la situazione attraverso la collaborazione tra educatori e genitori, predisponendo momenti di confronto (Scarzello, 2011, pp. 248-249) che, attraverso la narrazione dei propri vissuti, siano volti:

  • all’apprendimento di capacità di decentramento dai propri schemi di riferimento, con conseguente flessibilità cognitiva ed emozionale;
  • all’acquisizione di consapevolezza delle proprie modalità comunicativo-relazionali e conoscitivo-emozionali;
  • all’assunzione di impegno personale volto alla realizzazione della propria esistenza attraverso lo scambio comunicativo con l’altro, nel rispetto della reciproca diversità e professionalità (Contini, 1992, p. 116).

Questa proposta metodologica prevede che ogni partecipante si presenti e si racconti in base alla propria esperienza della genitorialità (ovvero come genitore o figlio), perché “ogni professionista è anche genitore, o per lo meno ha dei genitori” (Moletto, Zucchi, 2013, p. 47). L’operatore, infatti, non si pone in posizione di esperto rivolto ad individui privi di sapere, ma in posizione di “facilitatore”, che esibisce le proprie competenze comunicative per incentivare gli altri membri a fare altrettanto, con lo scopo di creare uno spazio-tempo atto ad accogliere la relazione tra i due agenti educativi (Chiosso, 2009). La riflessione sulla comune esperienza di genitorialità, in quanto genitori e figli, realizzata tramite la narrazione, rende possibile un processo formativo fondato sia da indicazioni teoriche che da testimonianze dirette legate all’esperienza concrete di ciascuno (Moletto, Zucchi, 2013). L’elaborazione della dimensione genitoriale, inoltre, implica necessariamente una “ridefinizione dei propri vissuti, richiamando alla memoria vicende ed esperienze passate”, e questo attraverso il riconoscimento del legame di queste esperienze con quelle presenti e con le aspettative rispetto al futuro (Saitta, in Mantovani, 2003, p. 71).

Il bagaglio di competenze e conoscenze del genitore deriva dalla funzione educativa che questo ricopre, dall’essere responsabile della crescita umana e morale di un altro individuo, dall’essere autore sia della fisicità del proprio figlio sia delle basi della sua personalità. Le competenze educative di queste figure di riferimento si sviluppano nella pratica educativa e ne sono caratterizzate: esse, infatti, si trovano spesso a dover agire nella complessità di situazioni sempre nuove (Moletto, Zucchi, 2013). Proprio su questo punto ci sembra interessante pensare al genitore come ad un professionista dell’educazione, alla pari di altri: come altri professionisti, anche il genitore, come tutti coloro che operano nei contesti educativi, “affronta il problema incontrato nel corso della pratica come un caso unico” (Schön, 1993, p. 149) e “presta attenzione alla peculiarità della situazione in esame” per “scoprire le particolari caratteristiche della propria situazione problematica e, a partire dalla loro graduale scoperta, progetta un intervento” (ibidem). È, quindi, nell’azione quotidiana – nei casi unici – che si formano le abilità necessarie alla vita; dall’esercizio della pratica quotidiana e dai compiti derivanti dall’educazione e dalla cura, nel senso più ampio del termine, che favoriscono lo sviluppo, la crescita e la progressiva autonomia del bambino, assicurandogli protezione e sicurezza.

 

“La nostra esperienza delle cose umane finisce per assumere  la forma dei racconti di cui ci serviamo per parlarne”

(Bruner, in Ammaniti, Stern, 1991, p. 21)

 

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